Intervista a Riccardo Rocchi, l'architetto dei Vip - Salvioni Design Solutions
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05/07/2018

Riccardo Rocchi – L’architetto dei Vip

Conosciuto nell’ambiente milanese come “l’architetto dei Vip”, Riccardo Rocchi è un architetto la cui fama sia italiana che internazionale ne attestano capacità d’eccellenza nel modo di fare e progettare. La stretta collaborazione che lo lega a Salvioni Design Solutions è nata grazie ad anni di avvicinamento e intesa professionale, culminati nel 2016 con l’apertura del nuovo showroom Salvioni a Milano all’interno della prestigiosa via Durini, nuovo polo d’eccezione per il design milanese.

Il pretesto era particolarmente ambizioso: dar vita a uno showroom nuovo e fresco, capace di esprimere la personalità Salvioni ed essere al contempo portavoce di un nuovo modo di fare design. Il progetto, ad oggi visitabile nei sei piani espositivi, si è concluso felicemente, consolidando una partnership che ogni giorno si rinnova all’insegna di nuove iniziative e prestigiosi eventi.

 

Ci parli di lei. Come ha iniziato la sua professione?

Terminate le medie, mi sono subito indirizzato verso gli studi artistici. La mia passione verso il disegno e le arti grafiche mi suggerivano infatti di intraprendere quella carriera, così pensai che il Liceo Artistico potesse soddisfare i miei interessi. In quel contesto riuscii ad assecondare i miei desideri di rappresentare le cose sebbene, a differenza di molti miei compagni talentuosi, non fossi esattamente nato con la matita in mano. Dovetti imparare con fatica, e forse fu proprio per quello che mi innamorai tanto del disegno tridimensionale e della prospettiva, i genitori dell’architettura. Terminato il liceo decisi di iscrivermi alla facoltà di Architettura, confidando che quella fosse la branca di studio perfetta per me: il mio desiderio era costruire palazzi e città.

 

Come furono gli anni presso la facoltà di Architettura?

Cominciai i miei studi di Architettura in tempi difficili; era il ’74, e all’epoca la facoltà era completamente immersa in quel clima di stravolgimenti e ribellioni studentesche della Milano contestatrice. Ricordo che la prima volta che mi recai al Politecnico trovai sacchi di sabbia impilati all’esterno della biblioteca, per l’occasione adibita a sala conciliare per le assemblee studentesche. Per chi come me si trovò in mezzo a tutto ciò, l’Università e gli esami cambiarono più volte volto: passammo dagli esami “popolari”, dove uno o più studenti zelanti – generalmente le matricole – davano l’esame per conto di un folto gruppo di sostenitori a seguito, a sessioni via via più impegnative per poi terminare la nostra carriera, con una facoltà nuovamente rigida ed esigente verso i suoi studenti.

Dato che, come detto, quegli anni non furono esattamente i più produttivi che io ricordi e il mio sogno era diventare Architetto, decisi di iscrivermi contemporaneamente allo IED, dove seguii gli studi di Architettura d’interni con professori molto validi e competenti. Gli studi presso lo IED mi fecero capire che era possibile fare Architettura anche all’interno di un ambiente. Non era Interior e non era Design, ma una forma di Architettura nuova e appassionante cui non mi ero approcciato fino a quel momento

 

Ci parli dei suoi maestri

Terminati gli studi, decisi di muovere i primi passi nel mondo dell’Architettura prendendo ad esempio i grandi maestri del settore. Non avendo alcun amico o conoscente nell’ambiente, decisi che il modo migliore per imparare fosse propormi direttamente come apprendista.

Bussai alla porta di molti studi di Architetti famosi come Marco Zanuso, Mario Bellini, Luigi Caccia Dominioni, Vico Magistretti e altri ancora, proponendomi per qualunque mansione che attenesse o meno l’architettura in senso stretto. In realtà importava ben poco: tutto ciò che desideravo era scoprire come si muovesse il maestro, come approcciava il lavoro, risolveva le tematiche più spinose. Capire, insomma, come funzionasse uno studio di architettura. Da Gio Ponti, che fu il primo, non avevo nemmeno un tavolo e la mia mansione, svolta a tempo pieno per tre giorni la settimana, consisteva nello svuotare posaceneri mentre i dipendenti si dedicavano al loro lavoro.

 

Da chi pensa di aver tratto maggiormente ispirazione?

Bellini e Magistretti erano estremamente affabili e alla mano. Gio Ponti un burbero, prodigo di buffetti dolorosi. Luigi Caccia Dominioni era meraviglioso; arrivava la mattina in ufficio con schizzi di progetti disegnati su foglietti diversi che buttava su questa o quella scrivania aggiungendo semplicemente “fatelo”. Era un genio. Credo che lui sia il maestro che in quegli anni ho amato di più in assoluto, poiché fra tutti era il più affine al mio desiderio di architetto e perché sapeva interpretare gli ambienti, le persone e i colori in maniera unica e impeccabile. Il suo gusto essenziale e pulito riservava sempre un tocco di genio sconvolgente, come una porta Lualdi rosso lacca all’interno di un appartamento con mobili antichi, o l’uso superbo di seminati e decori.

Più avanti, un altro grande Maestro da cui ho tratto ispirazione per il mio lavoro è Frank O. Ghery. Il suo lavoro mi è particolarmente caro, perché incarna il motto a cui secondo me tutti gli Architetti dovrebbero bene o male ispirarsi: niente è impossibile. Ghery costruisce architetture oniriche plasmando metallo e materiali come fossero carta ed è in grado di creare dettagli con effetti splendidi capaci di suscitare altrettante sensazioni di meraviglia.

 

Ci parli di un suo progetto che l’ha entusiasmata.

Un progetto a cui sono molto affezionato, nonché una delle più grandi sfide che ho affrontato durante la mia carriera professionale, è la ristrutturazione di Villa Esengrini a Monza. Il cliente desiderava che progettassi un appartamento interno alle scuderie. Mi dedicai alla realizzazione degli ambienti e studiai forme e strutture che ne assecondassero l’origine fino a imbattermi in una sfida: la realizzazione di una libreria di dodici metri che divenisse balaustra al primo piano. Quando mi confrontai con gli addetti ai lavori mi sentii dare del pazzo, ma tanto più grande era la difficoltà, tanto più stimolante era il superarla.

Un altro progetto molto caro è stato Villa Viganello di Lugano, dove sono intervenuto su una struttura di Mario Botta. Progettata originariamente negli anni ’80 come villa per una coppia, questa costruzione presentava una struttura fortemente distintiva, ma presentava la necessità di adattarne gli interni per una famiglia assai più numerosa comprendente una coppia e tre figli. La sfida, che coinvolgeva non solo il proprietario, ma anche le associazioni dell’architetto Mario Botta e i comitati del comune di Lugano per la salvaguardia delle opere artistiche, si risolse con l’innesto di torri di vetro in grado non solo di ampliare la facciata, ma donare luminosità alla struttura senza in realtà trasfigurarla.


Secondo lei esiste un dialogo fra Architettura d’interni e Interior Design?

Nella progettazione di un ambiente, il mio lavoro parte sempre dalla comprensione delle funzioni che quello spazio dovrà avere e dalla sintonia che esso dovrà creare con coloro che vi entreranno. Il progetto nasce quindi dal dialogo di più persone e dalla reciproca comprensione del loro modo di essere.

Va da sé che debbano sempre esistere dei capisaldi: chiunque scelga me deve essere a conoscenza del mio modo di lavorare; la luce non proviene mai dal soffitto ma dai muri. Difficilmente mi servo di lampade per illuminare ma ne prediligo la funzione estetica e compositiva in quanto oggetti di design. Le luci sono nascoste, tagliate nei muri, nicchiate e così via. Il mio stile punta sempre all’essenziale e alla cura di ogni dettaglio. Amo la simmetria e i materiali naturali come legno, marmo e pietra per la forza primitiva che li contraddistingue. Apprezzo inoltre le tinte scure, le atmosfere raccolte e le penombre, dove ritrovare la propria intimità e il riposo.

 

Ha mai pensato di fare design di prodotto?

Ho provato, ma credo che il design di prodotto sia un mio limite. Durante la mia carriera ho disegnato più volte prodotti di design su commissione, ma mai oggetti rivolti a un pubblico mondiale. Questo perché per progettare io sento la necessità di rivolgermi a un interlocutore, qualcuno su cui possa modellare il prodotto così da renderlo unico e perfetto alle sue esigenze. Il design generico richiede una estraneazione e una ricerca che non mi sono familiari.

Lo showroom Salvioni Milano Durini è un suo progetto. Cosa può dirci a riguardo?

Salvioni Milano Durini è uno dei progetti di cui vado più fiero proprio perché, a differenza di molti altri, mi ha reso possibile vincere il limite della progettazione universale. Per Salvioni ho dovuto infatti creare non uno, bensì sei diversi interlocutori a cui destinare ogni singolo piano espositivo. Per ognuno, mi sono cimentato nel ricrearne un gusto, un’inclinazione, delle preferenze e abitudini; in poche parole, una personalità. Fatto questo, ho dato loro dei nomi, e il gioco era fatto: ecco pronti sei diversi archetipi di gusto per arredare la propria casa.

Ma il lavoro non era ancora finito. Una volta distinte fra di loro tutte quelle “persone ideali”, era necessario individuare un modo per riunirle nuovamente sotto un medesimo comune denominatore che le accomunasse tutte: Salvioni. Chiunque entri nello showroom di Durini deve dunque poter vedere sei stili e personalità diverse, sei modi di vivere, sei emozioni, ma percepire comunque fra di essi un’unica anima, un filo conduttore che li guidi: lo stile.

 

Quanto il legame può far crescere tutti e due?

Salvioni è stato per me un progetto unico, una sfida che mi ha permesso di uscire dai canoni del mio modo di agire professionale per addentrarmi in un contesto multibrand e multisfaccettato. Un progetto tanto più complesso proprio per l’esigenza in esso insita di avvicinare una realtà come Salvioni a un contesto come via Durini. Egualmente problematica era l’esigenza di riunire più marchi all’interno della medesima esposizione, creando spazi dove diversi design e tendenze potessero dialogare fra di loro in un tutt’uno organico. È stato molto difficile, e di certo ancora molto dovrà essere fatto, ma per ora la grande soddisfazione è vedere realizzato qualcosa che, solo pochi anni fa, molti avrebbero ritenuto impensabile.